Lettre de Stazio Gadio au duc de Mantoue, 16 mai 1518
L'ambassadeur de Mantoue, Stazio Gadio, dans l'Archivio Gonzaga, Esteri (Francia), XV, 3, 634, texte cité par Edmondo Solmi dans Documenti inediti sulla dimora di Leonardo da Vinci in Francia nel 1517 e 1518, in Scritti Vinciani, Le Fonti dei Manoscritti di Leonardo da Vinci a altri studi, La Nuova Italia editrice, Firenze, 1976, p 621-623. Traduction et transcription, Frank Labrasca (CESR) et Giordano Mastrocola
Ill.mo et Ex.mo S.r mio singularissimo V. Ex saperà che ’l signor Federico sta sano et, per il rezente male havuto, non è intervenuto in la bataglia del Castello, la qual se fece alli XIIII et XV, cioè venri e sabbato passati, in questo modo. V. Ex se imagini una piaza grande, et da uno capo uno circuito, quanto è uno huomo a cavallo, con li merli coperte tutte di dentro di tele dipinte a similitudine de muraglie. Tra li dui torioni fatti, la piaza era uno teraglio, alto uno homo, sopra il quale era una travata alta dua braza di ligname; de nanti era la fossa larga circa cinque braza, tra la qual et il terraglio era tanto spatio quanto porgevalno le grosseze de li torioni, sulla riva di la fossa fingevasi una muraglia continuata da uno torrione alaltro, fatto di tele dipinte, atacate ad alcuni legni, che facilmente si possevano ruinare; di la medema tela pinta erano coperti li torioni, sopra li quali ventilavano due bandere di cendal nero, gialo et biancho. Sulli merli et difese erano molti archibusi; sul terraglio si vedevano alcuni mortari de ligno cerchiati di ferro, che tiravano, con la polvere e col focho, con gran strepito, baloni sconfiati in aere, quali cadendo sulla piazza balzavano con gran piacere di ogni uno e senza danno: cosa nova et ben condutta ingegnosamente. Erano anche dentro tre falconeti di metallo che tiravano straze et carte, come si costuma, per far strepito senza effetto. Da ogni canto di la piazza, presso il castello, sopra muraglie, erano circa vinti cinque archibusi, per ogni banda, per difension dil Castello, nanti il quale era uno stechato grande, che serava il borgo di la terra, fatto de molte case finte, con tele dipinte. La gente che difendevano il castello erano dodeci homini darme in biancho, con li lor cavalla et lanze, vestiti di raso gialo et furno li tenenti di la giostra circa trenta cavalli legieri, vestiti di bianco alla stratiotta, quali haveano per capo bocale, scuder dil re, vestito duna casacha di tela doro tirato, et cento fanti ben armati con le piche et schiopetti, governati dal capitano lorges sotto una bandera di cendal negro gialo et biancho.
Da laltro capo di la piaza eravi il magnanimo Re, armato collo elmetto in testa et un gran penachio con homini darme de tutte le bande, che giostrorno con le lor sopraveste e penachij acavallo con la lanza sulla coscia; et aman sinistra havea uno gran bataione de fantarie, tra quali erano tutti li svizeri et arceri di la guardia armati con alabarde et piche con qualche schiopetti. A man dextra si vedea una squadra de albanesi vestiti di cendal negro, tanetto e biancho, et il suo capitaneo era Santa Colomba, vestito duna casaca di brochato turchesco in campo verde; et con lexercito erano alcuni pezi di falconetti et meze colubrine, con li lor canoneri e munitione.
Se vedeano mo da ogni canto di la piaza, che è molto longa, tutti li catafalchi, le finestre et li tetti carichi de infinito numero de genti apiede et acavallo, tanti vi erano quanti vi potevano capir. Con gran stretta et pericolo di sofocarsi per la multitudine desiderosa di veder una cosa di tanta expectatione ne anche pesava il pagare dinari per tanto buso che li potesse caciar la testa per veder, né a quelli de le case rincrescieria romper li tetti et busar le faciate per affittar le poste essendo molto major il guadagno del fitto, che il danno della rottura.
Venutta adunche la Regina e madama, con le gentil damiselle, per amor de quale il tutto si è fatto, si comenziò a scaramuzare, et perché non seguesse disordine tra li soldati, et li astanti non impedissero la piaza, furno fatti quatro maestri di campo, che havessino ad proveder al tuto: luno era monsignore granmaestro, monsignore di la Tramoglia, monsignore gran scuder et monsignor di la Palissa, tute vestiti de zamare de veluto beretino et de tella dargento con capelletti in testa alla todescha di veluto beretino, passato di tela dargento con penne beretine e bianche, sopra cavalli gianetti con fornimenti a brage de tela dargento e veluto beretino, molto belli e ligiadri: tra quali dui ne erano di la raza di V. Ex.: il falbo nontintendo sotto il gran scuder, et uno gianetto morello molto gagliardo sotto monsignore de la Palissa et credo sia il pertuso di monsignor ladmiraglio. E poi venne fora dil Castello uno stratiotto con dui fanti apresso uno con la picha, laltro con uno schiopetto, et se ne andò verso li nemici et trovossi dui fanti, che stasevano
alla scolta et vedetta: luno cum la picha, laltro col schiopetto et cominciorno a scaramuzar li duj fanti con le piche et il stradiotto entrava ancor lui, poi se retirava, e ritornava col schopettero là posto et tirorli, et lui fingendo esser ferito si lassò cascar da cavallo, et il fante li fu adosso monstrando di ferirlo, et amazarlo. Li fanti dal Castello, vedendo questo, andorno in sei ad asoccorer li dui, et scaramuzzando caciorno quelli di fora, et portorno il corpo del stratiotto morto nel borgo dentro la svarra. Ventrò poi sei o otto fanti di fora ad presentarsi verso la sbarra, invitando quelli dil Castello, e quelli uscirno, et scaramuzando uno de quelli dil re finse esser ferito, e cascò in terra, et uno de li adversarij li corse adoso et monstrava di amazarlo, li compagni del morto sopragiunsero più forti e rebutorno quelli del Castello sino nel steccato, et portorno via el morto. Una altra volta uscirno dil castello in magior numero li fanti, et andorno ad assaltar quelli, che portavano il morto, intenti ad salvar almeno il corpo dil compagno per poterlo sepelire, et scaramuzando se tirorno a salvamento senza alcuno danno et li altri ancora riteronsi al Castello. In questo tempo tiravano spesso li archibusi: quatro stratiotti di Castello corsero sino sulli steccati dil re, con quello suo cridar allalbanesa, et poi subito voltorno perseguitati dalcuni schiopeteri, et otto stratiotti dil re uscirno, dando lincalcio alli stratiotti nimici, sino sutto il Castello, quali ingrossati dasevano la cacia a quelli dil re, e così correndosi dretto luno alaltro, detteno per un pezo spasso alli spetatori. Usciti tutti dogni canto si corevano contra lun laltro rompendosi le lanze nelle tunige. In questo si vedeano alcuni cascar, chi per orto di cavallo saltava for a di sella a suo dispetto, e chi caschava insieme col cavallo per terra per volerlo voltar troppo presto, et alcuno tanto arditto che si metteva scaramuzando tra li nemici tanto oltre che non possendo esser soccorso da li soi restava pregione de’ nemici.
Il re che deliberava darli lassalto gagliardo per pigliarlo per forza, non se volendo render daccordo, spinsesi for a del stechatto con le gente darme et fantarie ben alordine, ma prima che si facesse più avanti bastandoli che li nemici havessino potuto veder la sua gran forza, et armata, mandò uno trombetta ad dimandar il Castello, et lor lo presero et lo impicorno al torion dil Castello, butando uno homo de stratie vestito de li panni dil trombetta, atacato per la gola for a de li merli in dispregio dil Re. Il qual spinto da justa ira si voltò verso li soi soldati exhortando ciascuno ad far il debito suo come se persuadea che fariano, hauendoli experimentati in maior impresa di questa, che haveano riportato et utile et honore; et li metteva nanti li occhi lhonore che aquistariano et laugmentativa de la gratia de le lor dame, et ciaschuno, per questo così pongente sperone, se ingegnava di far qualche atto generoso et di valore per piacer alla sua dama, alla presentia de la quale il tutto si facea.
Il valoroso Re, come prudentissimo capitano, havendo inanimati li soi valenti cavallieri, spronò il Cavallo, et spinsesi sopra il stechato dil Castello, dil qual usirno dodeci homini darme che alli effecti mostrorno essere valenti cavallieri, et combaterno un pezo con li stochi: et il fortissimo re ben si faceva cognoscer al ferire li nemici, li quali non potendo sostenir così gran contrasto, havendo perhò fatto il debito lor, si ritrorno a salvamento nel Castello, non perdendo cosa alcuna. Doppoi li fanti si presentorno al stechato, qual era difeso da quelli di dentro per salvar il borgo et scaramuzando et combatendo. Quelli dil Castello vedendo non potere star al contrasto et salvar li borgi, se retirorno in castello e nel retirarsi brusorno le case de li borgi per levar occasione alli nemici di allogiar nelli detti borgi: rinchiusi in castello, il re subito feci menar lartigliaria ad bater li muri, et con quatro meze Colubrine ruinò tutta la muraglia de nanti: et ben servitte il fumo de lartigliaria che ad uno tratto tirorno via quelle tele poste per muraglie, che pochi lo videno. Quelli de dentro ancor lor tiravano artigliaria et li mortari con quelli baloni. L’artigliaria grossa, che erano tra Canoni, Colubrine e meze Colubrine trentasei pezi, senza molti falconetti et archibusi, era sopra una colina, et tirava in unaltra colina balotte non finte che facea parer vero et horribile il fatto darme finto.
Ruinata la muraglia se scoperse uno forte bastione ove quelli monstravano star molto securi et senza paura. Fatto alto, il Re con la gente da cavallo et da piede lassò libero il steccato dil Castello forsi per il danno che facea lartigliaria dil Castello nelle sue gente o forsi più presto per tirarli fori, come li reuscite. Quelli di dentro, vedendosi libero il stecato, animosamente uscevano apochi apochi fanti nel stecatto, et alcuni dil re si acostavano et scaramuzavano, poi usceva uno et dui homini darme, et quelli dil re tanti ne uscevano dela meschia et compagnia et corevano inscontro rompendo le lor lanze, et a questo modo molte lanze si ruppero senza lize: li homini darme dil Castello smontorno tutti et venero con le lor lanze in mane al stechatto et mons.r Contestabile con dodeci homini darme si spinse ina[n]zi, et smontati se afrontorno al stechatto con le lanze et combaterno molto animosamente con li nemici, et voltando il calzo di le lanze si batevano molto forte. Cessato che hebbero loro se afrontorno li fanti al stechatto et combaterno.
Doppo rimontati ad cavallo quelli de dentro uscirno con li stochi in mane, et il Re et mons.r contestabile et altri soldati combaterno con li stochi, ma quelli de dentro vedendo che dubia era la victoria per loro quel giorno, sperando soccorso el di seguente, volsero venir a parlamento col Re, et promisero darli il Castello in termine de vintiquatro hore, se non li veneva soccorso, e furno dati de ogni canto li obstatici et con tirar artigliarie e sonar di trombe si finitte quella giornatta, et ogniuno se riterò al suo logiamento che erano vintiquatro hore.
Et quel di comparse brione sopra uno frisone con barde de azaro, lavorato alla fogia de maschera, sopra qual erano finte bataglie et dice che è IL FATTO DARME DI MARIGANO: così era il collo dil cavallo tutto de piastre ben adorate et lavorate in excellentia, che facea un bel vedere.
Il sabato il re volse esser quel che menasse il soccorso al Castello, et nanti chel re entrasse in Castello col soccorso, le fantarie di dentro scaramuzorno con quelle di fora a dui, a quatro, a dece, et a venti ancor, e chi restava pregione, chi morto e chi stropiatto o ferito, fingendosi tuti li casi, che ponno cascar nella guerra. Li stratiotti da ogni banda scaramuzavano, tra quali era uno con uno elmetto in testa da giostra de demenino col scudo de osso,
come si usa qua ademenino, et alli spalli haveva il brochero alla stratiotta o turchescha, e scaramuzava con li altri, et quella disconvenientia daseva da rider alli spectatorj, et alcuni casi che accadeveno tra loro urtandosi lun laltro, a chi cascava il cavallo sotto, a chi la targa, a chi la lanza, chi rompeva la lanza nella testa al cavallo, a chi nella schena al stratiotto, corendosi dretto luno laltro, et alcuni cascavano da cavallo, et il nemico guadagnava il cavallo, altri restavano pregioni, alcuni altri ritornavano da saccomano con castroni e capretti, et in questo scaramuzar spesso tirava lartigliaria.
Quando parse tempo al Re di soccorer il Castello, entrò dentro per la porta de dretto con quatro bandere de fantarie di la sua livrea negro taneto biancho, et con lui havea molti homini darme a pede de tutte arme bianche, con piche in mane. Gionto in castello si fecero vedere su li repari, et con tiri de artigliaria et soni de trobme facevano allegrie.
Col re entrò in Castello al soccorso mons.re Contestabile con quindici homini damre a cavallo, tra de li soi et de quelli di mons.re di gisa. Da laltro capo era apiede mons.re di vandoma con molti homini darme et fantarie con tre bandere di la sua livrea, che è turchino e gialo, a cavallo, al contrasto di mons.re contestabile, eravi mons.re di la[n]son con altri tanti homini darmi de li soi et del principe di orange, quali tutti stasevano al ordine aspettando di venir al fatto darme, sapendo che uno famosso et valentissimo capitaneo, desideroso di venir alla giornata, era venuto al soccorso dil Castello con molti homini valenti da piede et da Cavallo. Il re, volunteroso di far cognoscer il valor suo et deliberar il Castelo da lo asedio, uscì con grande ordine et animo nel steccato, et ben si assicurava dil valor della sua compagnia experimentata altre volte, la qual con parolesuavij et animose exhortava ad seguirlo proponendoli lagloria et utile da uno canto et da laltro la infamia perpetua et danno, et ricordavali le victorij et honori havuti pel passato in tante difficili imprese.
Et finito il parlar suo, essendo pocho lontano de li nemici che già marchiavano inanti contra loro, si inginichiò et basò la terra, et così tutti fecero. Levati in piede et abassato la vissera non disse: andate inanti, cridò alta voce: sequiteme, o fidi et valenti compagni; et da un tratto bassato le piche urtorno nelli nemici, quali forti animosi non cessero, ma ciascuno urtava, et tanto erano insieme restretti che non era in libertà dalcuno ferir il nemico, non dirò di spada ma di fussetto, né si attendeva ad altro che ad urtar et guadagnar terreno, quando il Re si attachò con lihomini darmi a piede, il contestabile, ad un tempo medemo, urtò nelle gente darme a cavallo di mons.re di Lansone con li soi cavallieri et combacterno con li stochi un pezo: non si cognoscendo chi avesse melior di la giornata, e nel primo incontro a uno homo darme di mons.re di Lansone cascò sotto il cavallo per essensi spallato.
Stati alle mani un pezo, se retirorno ciascuno al suo canto, et refrescatosi alquanto il Re, con la prima arenga de soi afrontò mons.re di vandoma, che li venea contra con la prima arenga de soi et a gran colpi de piche il re guadagnò il campo, et salrò il Castello. Mons.re contestabile, mons.re di Lanson, mons.re di Gisa e mons.re principe d’Orange con li lor soldati combaterno una altra volta. Et con honore dil invictissimo et virtuoso Re sono finite li simulacri bellici, né altro si è fatto, doppo, né si farà più qua, perché sua ma.tà se ne anderà in bretagna: et io baso li piedi a V. Ec. et mi racomando in sua bona gratia. Ambosia XVI maij MDXVIII.
Très Illustre et Très Excellent Seigneur. Votre Excellence saura que le seigneur Frédéric est en bonne santé et que, à cause de sa récente maladie, il n’est pas intervenu lors de la bataille du Château, qui s’est déroulée le 14 et le 15, c’est-à-dire vendredi et samedi derniers, de la manière suivante. Votre Excellence, imaginez-vous une grande place avec, au bout, un espace clos haut comme un homme à cheval, cerné d’une fausse enceinte à créneaux recouverte à l’intérieur de toiles peintes à l’imitation des murailles. Entre les deux tours [donjons ?] érigées, la place a été surélevée en une motte haute comme un homme, au-dessus
de laquelle s’élevait un poutrage en bois haut de deux brasses ; au-devant, il y avait une douve large de cinq brasses. Entre cette douve et la motte, la distance correspondait à la grandeur des tours. Sur le bord de la douve, il y avait une muraille feinte et continue d’une tour à l’autre, faite de toiles peintes fixées à des éléments en bois que l’on pouvait facilement abattre. Sur les tours, recouvertes de la même toile peinte, deux drapeaux de cendal noir, jaune et blanc flottaient au vent. Sur les créneaux et les fortifications se trouvaient de nombreuses arquebuses ; sur la motte on voyait quelques mortiers de bois cernés de fer qui tiraient en l’air, avec poudre et feu, en faisant grand bruit, des ballons gonflés qui, en retombant sur la place, rebondissaient au plus grand plaisir de tous et sans dommages : tout cela était nouveau et ingénieusement bien fait. Il y avait aussi à l’intérieur [des fortifications] trois petits faucons de métal qui tiraient des chiffons et du papier, comme c’est l’usage, pour faire du bruit sans conséquence. De chaque côté de la place, près du château, au-dessus des murailles, se trouvaient vingt-cinq arquebuses de chaque côté, pour défendre le château. Au-devant, il y a avait une grande palissade qui séparait le bourg de la motte. Le bourg était composé de nombreuses maisons feintes en toile peinte. Douze hommes en armes blanches défendaient le château, avec leurs chevaux et leurs lances, vêtus de satin jaune. Environ trente chevaliers légers joutaient, vêtus de blanc comme les stradiots, qui avaient pour chef un certain Bocale, écuyer du roi, habillé d’une casaque en toile filée d’or, ainsi que cent fantassins bien armés de piques et d’escopettes, dirigés par le capitaine Lorges, sous le drapeau de cendal noir, jaune et blanc.
De l’autre côté de la place se trouvait le roi magnanime armé, casqué d’un heaume à grand panache, entouré de chaque côté par des hommes d’armes à cheval qui joutèrent vêtus de leurs soubrevestes et panaches, portant leurs lances sur les cuisses. Sur la gauche de la place, il y avait un grand bataillon d’infanterie comprenant tous les Suisses et les archers de la garde, armés de hallebardes, de piques et de quelques escopettes. Sur la droite, on voyait une troupe d’Albanais vêtus de cendal noir, tanné et blanc. Son capitaine était Sainte-Colombe habillé d’une casaque de brocart à la turque à fond vert. L’armée comprenait quelques faucons et demi-couleuvrines avec leurs tireurs et leurs munitions.
On voyait de chaque côté de la place, qui était très longue, sur des estrades, aux fenêtres et sur les toits, une foule infinie de gens à pied et à cheval, autant qu’ils pouvaient en contenir, très serrés et en danger d’étouffer à cause de la multitude de gens désireux de voir une chose dont ils attendaient beaucoup. A ces gens il importait peu de payer cher pour avoir seulement un trou pour passer la tête et y voir, et il importait peu aux propriétaires des maisons de casser les toits et trouer les façades pour y louer des places de spectateurs, parce que le gain de la location qu’ils en tiraient était bien supérieur à la perte due au dommage.
Une fois la reine [Claudia, épouse de François Ier], Madame [Madeleine de la Tour d’Auvergne] et les gentilles demoiselles arrivées – tout avait été fait par amour pour elles – s’engagèrent les escarmouches, et afin qu’il n’y ait pas de désordre au sein des soldats et que les gens présents ne bloquent pas la place, on nomma quatre maîtres de la place qui devaient penser à tout. L’un d’eux était Monseigneur Grand Maître [Arthur Gouffier de Boissy, Grand Maître de France], Monseigneur de la Trémoille [Louis de la Trémoille], Monseigneur Grand Ecuyer et Monseigneur de Lapalisse [Jacques de Chabannes de La Palice], tous vêtus de simarres de velours gris et de toile d’argent avec de petits chapeaux à l’allemande de velours gris ornés de toile d’argent et de plumes grises et blanches, montés sur des genêts harnachés de culottes de toile d’argent et de velours gris, très beaux et gracieux. Parmi les chevaux, deux étaient de la race de Votre Excellence, l’un avait une robe dun nontintendo [qualité d’un coleur ?] et l’autre était un genêt noir très vif monté par Monseigneur de La Palice, que je crois être le Pertuso [nom du cheval ?] de Monseigneur l’Amiral [Guillaume Gouffier de Bonnivet]. Et ensuite un stradiot sortit du château, accompagné de deux soldats, l’un avec une pique et l’autre avec une escopette, et il s’en fut auprès des ennemis. Il rencontra deux soldats de sentinelle, l’un avec une pique et l’autre avec une escopette, et les deux soldats aux piques commencèrent à s’escarmoucher. Ensuite le stradiot entra dans l’escarmouche et se retira, et il y retourna contre le soldat à l’escopette des ennemis qui lui tira dessus, et le stradiot fit semblant d’être blessé et il se laissa tomber de son cheval. Alors l’ennemi lui tomba dessus, faisant mine de le blesser et de le tuer. Ayant vu cela, six soldats du château vinrent secourir les deux fantassins qui accompagnaient le stradiot et firent battre en retraite les deux ennemis. Ils portèrent ensuite le corps du stradiot mort dans le bourg, derrière la barrière. Six ou huit fantassins entrèrent ensuite de l’extérieur et se présentèrent près de la barrière et invitèrent les soldats à sortir du château, ce qu’ils firent. Ils combattirent et un des fantassins du roi fit semblant d’être blessé et tomba par terre, et l’un des adversaires lui sauta dessus et fit semblant de le tuer. Les compagnons du mort retournèrent au combat encore plus fort et repoussèrent ceux du château jusqu’à la palissade, avant d’emmener le mort. Une autre fois, un nombre encore plus grand de fantassins sortit du château et assaillit ceux qui portaient le mort (afin de sauver au moins le corps de leur compagnon pour pouvoir l’enterrer) et, tout en combattant, ces derniers réussirent à s’enfuir sans avoir aucun dommage. Les soldats retournèrent alors au château. En même temps, les arquebuses tiraient souvent. Quatre stradiots du château coururent jusqu’à la palissade du roi avec des hurlements à l’albanaise, mais ils firent rapidement demi-tour, poursuivis par les tireurs d’escopette. Huit stradiots du roi sortirent alors et se mirent également à leurs trousses jusque sous le château. Les quatre stradiots du château grandirent alors en nombre et donnèrent la chasse aux stradiots du roi, et, ainsi, en se courant les uns après les autres, ils amusèrent longtemps les spectateurs. Une fois tous sortis de tous les côtés, ils s’affrontèrent en se cassant les lances sur les tuniques. On en voyait tomber certains et, lorsque les chevaux se cabraient, certains étaient éjectés de leur selle contre leur volonté. Certains tombaient avec leur cheval parce qu’ils avaient essayé de les faire tourner trop rapidement, et certains étaient si hardis que, tout en combattant contre
les ennemis, ils allaient si loin qu’ils ne pouvaient plus être secourus par leurs compagnons et restaient prisonniers.
Le roi, désirant donner un assaut brutal au château pour le prendre par la force, et le château refusant de se rendre, il s’avança au-delà de la palissade avec ses hommes d’armes et son infanterie en bon ordre. Mais, avant qu’il aille plus avant, croyant qu’il suffisait que les ennemis aient vu sa grande force et son armée, il envoya un trompette demander la rémission château. Et ceux du château capturèrent le trompette et le pendirent à la tour, jetant un bonhomme de chiffons habillé comme le trompette pendu par la gorge, au-dessus des créneaux, au mépris du roi. Ce dernier, poussé par une juste colère, se tourna vers ses soldats, les exhortant à accomplir leur devoir comme d’habitude, les ayant déjà mis à l’épreuve dans des entreprises plus difficiles que celle-ci, d’où ils avaient rapporté l’utile et l’honneur. Il leur présenta l’honneur qu’ils en auraient tiré et les plus grandes grâces qu’ils auraient reçus de leurs dames. Et tous, grâce à cet éperon pointu, s’ingénièrent à faire quelques actes généreux et valeureux pour plaire à leurs dames qui assistaient à tout cela.
Le valeureux roi, très prudent capitaine, ayant encouragé ses vaillants chevaliers, éperonna son propre cheval et passa par-dessus la palissade du château, dont sortirent douze hommes d’armes qui se montrèrent de courageux chevaliers et combattirent un peu avec leurs estocs. Le roi, très fort, se fit bien connaître en blessant les ennemis qui, n’arrivant pas à soutenir une telle inégalité et ayant accompli leur devoir, s’enfuirent au château, sans dommages. Après, les fantassins du roi se présentèrent à la palissade défendue par ceux de l’intérieur pour sauver le bourg : il combattirent. Ceux du château, voyant qu’ils ne pouvait soutenir le combat et sauver le bourg, se retirèrent dans le château en brûlant les maisons du bourg afin d’empêcher les ennemis de s’y installer. Une fois enfermés dans le château, le roi appela l’artillerie à abattre les murs et, avec quatre demi-couleuvrines, il cassa toute la muraille sur le devant. Et la fumée de l’artillerie fut très utile parce que, d’un coup, on enleva les toiles en guise de murailles, et très peu de spectateurs s’en rendirent compte. Ceux de l’intérieur tiraient encore avec l’artillerie et avec les mortiers pourvus de leurs ballons. L’artillerie lourde, qui comptait trente-six pièces dont canons, couleuvrines et demi-couleuvrines, sans compter de nombreux faucons et arquebuses, se trouvait au sommet d’une colline, et tirait sur une autre colline des balles non feintes, ce qui rendait vrai et horrible le combat aux armes feintes.
Une fois la muraille cassée, on vit un grand bastion où les soldats étaient réfugiés, en sécurité et sans peur. Ayant fait halte, le roi, accompagné de ses cavaliers et de ses fantassins, quitta la palissade du château, non seulement à cause des ravages que l’artillerie du château causait à son armée, mais surtout pour les attirer hors du château, ce à quoi il réussit. Ceux de l’intérieur, quand ils virent que la palissade était libre, sortirent peu à peu, courageusement. Et quelques soldats du roi s’en approchèrent et commencèrent à les combattre. Ensuite sortirent un ou deux hommes d’armes du château, et autant de soldats du roi sortirent de la mêlée et coururent à leur encontre et rompirent leurs lances contre eux. Ainsi se rompirent de nombreuses lances, sans lice. Les hommes d’armes du château descendirent tous et s’avancèrent vers la palissade, leurs lances à la main. Monseigneur le Connétable s’avança avec douze hommes d’armes, et, descendus de cheval, ils s’affrontèrent à la lance à la palissade et combattirent très ardemment leurs ennemis. Il se battaient très fort en tournant le talon des lances. Quand ces hommes eurent finis, les soldats d’infanterie s’affrontèrent à leur tour à la palissade.
Après être remontés à cheval, ceux de l’intérieur sortirent, l’estoc à la main, et le roi et le Connétable ainsi que quelques autres soldats combattirent à l’estoc, mais, ceux de l’intérieur voyant que la victoire était incertaine pour eux ce jour-là, et espérant du secours pour le jour suivant, décidèrent de traiter verbalement avec le roi. Ils promirent de lui remettre le château dans les vingt-quatre heures si le secours n’arrivait pas. De chaque côté, les otages furent remis et, au son de tirs d’artillerie et des trompettes, cette journée se termina. Et chacun se retira à son logement parce que minuit était sonné.
Et ce jour Brion fit son apparition monté sur un frison aux bardes d’acier travaillées en forme de masque, sur lesquelles on voyait des batailles feintes avec l’inscription LA BATAILLE DE MARIGNAN. Le cou du cheval était également recouvert de plaques bien dorées et travaillées excellemment, ce qui était un beau spectacle.
Le samedi, le roi voulut être celui qui porta secours au château et, avant qu’il n’entre avec le secours dans le château, les infanteries de l’intérieur combattirent contre celles de dehors, à deux, à quatre, à dix et même à vingt. Et certains furent faits prisonniers, certains moururent, certains restèrent estropiés ou blessés, faisant semblant de subir tout ce qui peut arriver pendant une guerre. Les stradiots s’escarmouchaient de chaque côté. L’un d’eux portait un casque de joute de demenino [la joute a demeni etait une joute au cours de laquelle les fers des lances étaient rendus moins offensifs grace à l’ajoute de petites couronnes] et un écu d’os, comme c’est l’usage ici a demenino, et, sur les épaules, un bouclier à la stradiote ou à la turque, et il s’escarmouchait avec les autres, et cet inconvénient faisait rire les spectateurs, tout comme certains faits qui survenaient parmi les combattants : certains se cognaient, leurs chevaux tombaient, ou leurs targes, ou leurs lances ; certains cassaient leurs lances sur les têtes des chevaux ou sur le dos des stradiots, en se courant les uns après les autres ; certains tombaient de cheval et l’ennemi gagnait le cheval ; certains étaient faits prisonniers ; certains autres revenaient dans la bataille, déguisés cette fois en goujats, portant des moutons et des chevreaux. Pendant ces escarmouches, l’artillerie tirait souvent.
Quand le roi estima que le moment de secourir le château était arrivé, il y entra par la porte de derrière avec quatre drapeaux d’infanterie et sa livrée noire, tannée et blanche. Il avait avec lui beaucoup d’hommes d’armes à pied, de toutes les armes blanches, leurs piques à la main. Arrivés au château, ils se montrèrent sur les remparts et, au son d’artillerie et de trompettes, ils se réjouirent.
Pour porter secours au château, Monseigneur Connétable entra à la suite du roi, avec quinze hommes d’armes à cheval, dont certains étaient les siens et certains appartenaient à Monseigneur de Guise. De l’autre côté, Monseigneur de Vendôme était à pied avec de nombreux hommes d’armes et de fantassins, avec trois drapeaux de sa livrée turquoise et jaune. Contrairement à Monseigneur Connétable, Monseigneur de Lançon se tenait à cheval avec autant d’hommes d’armes, à lui et au prince d’Orange, qui étaient tous aux ordres en attendant d’entrer dans la bataille, sachant qu’un célèbre et très vaillant capitaine désireux d’entrer dans la bataille était venu au secours du château avec beaucoup d’hommes valeureux à pied et à cheval. Le roi, qui voulait faire connaître sa valeur et libérer le château de l’assaut, sortit avec grand courage et bon ordre de bataille vers la palissade. Il était très sûr de la valeur de sa compagnie, qu’il avait déjà expérimentée auparavant, et qu’il exhortait à le suivre par des mots harmonieux et doux, en lui promettant d’une part l’utile et la gloire, et d’autre part l’infamie perpétuelle et la ruine. Il lui rappelait les victoires et les honneurs reçus par le passé dans tant d’entreprises ardues.
Et quand il eut fini de parler, étant proche des ennemis qui avançaient déjà vers eux, il s’agenouilla et baisa la terre, et tous les autres firent de même. Il se releva et abaissa la visière, il ne dit pas « Avancez », mais cria à haute voix « Suivez-nous, fidèles et valeureux compagnons ». Et, d’un coup, ils abaissèrent leurs piques et heurtèrent leurs ennemis qui, forts et courageux, ne cédèrent pas, mais chacun heurtait. Et ils étaient si serrés qu’ils n’arrivaient pas à blesser leurs ennemis, je ne dis pas avec l’épée, mais même pas avec le poignard, et ils ne pensaient qu’à se heurter et à gagner du terrain. Lorsque le roi attaqua les hommes d’armes à pied, le Connétable avec ses cavaliers heurta les gens d’armes à cheval de Monseigneur Lançon et ils combattirent quelques temps à l’estoc. Ce jour-là, on ne sut pas qui vainquit, et, lors de la première rencontre contre un homme d’armes de Monseigneur de Lançon, [le Connétable] tomba sous le cheval qui s’était cassé les épaules.
Après avoir combattu pendant quelques temps, chacun se retira de son côté et, le roi s’étant rafraîchi, il affronta, avec le premier rang de ses soldats, Monseigneur de Vendôme qui combattait également avec le premier rang de ses hommes. A grands coups de piques, le roi gagna la partie et sauva le château. Monseigneur Connétable, Monseigneur de Lançon, Monseigneur de Guise et Monseigneur le Prince d’Orange, suivis de leurs soldats, combattirent à nouveau, et, avec l’honneur du très invaincu et vertueux roi, se finirent les simulacres belliqueux. Rien ne s’est fait après ni ne se fera maintenant, parce que Sa Majesté s’en ira en Bretagne. Et moi je baise les pieds de Votre Excellence et je Vous prie de me garder dans Vos bonnes grâces. Amboise XVI mai MDXVIII.